Dario Gedolaro
Chi non conosce imprenditori torinesi che hanno chiuso la loro attività, investito i soldi in fondi e fanno la bella vita? O rampolli di ricche e note famiglie che non vogliono più saperne di lavorare in azienda e fanno i “rentier”? E’ un andazzo diffuso a Torino, ex capitale industriale del Paese, senza voler fare di ogni erba un fascio. Certo ci sono i nuovi capitani d’industria, penso ai maggiori azionisti di Reply, la famiglia Rizzante, o agli Ocleppo proprietari del Gruppo Dylog, tanto per fare due esempi virtuosi, ma i vuoti lasciati dalle chiusure sono assai più numerosi e pesanti rispetto a quelli delle nuove aperture e sull’indotto automobilistico incombe il fantasma dell’auto elettrica. Intanto, molti giovani rampolli si buttano sul food, gestendo una vineria, un ristorante, un locale per gli apericena. Danno lavoro a qualche persona mentre il papà aveva centinaia di dipendenti.
Non giova al clima di abulia e pigrizia che pare avere depresso la città e la sua classe dirigente la notizia della vendita, con un annuncio su un sito online, dello stabilimento Maserati di Grugliasco, quello fortemente voluto da Sergio Marchionne. E un altro tassello della politica di disimpegno di Stellantis da Torino? E’ sicuramente il sogno di un “polo del lusso” che si è infranto. E, scherzo del destino, la vendita è curata da un imprenditore torinese che ha fatto molto parlare di sé nelle scorse settimane per un sogno infranto, Massimo Segre, che ha annunciato pubblicamente la rottura del suo fidanzamento proprio nel corso della cena in cui doveva invece annunciare la data delle nozze.
Anche il segretario piemontese della Cgil, Sergio Airaudo, un barricadero quando guidava la Fiom torinese, ora sembra finalmente aver capito che la lotta di classe non porta da nessuna parte e si è unito a chi denuncia il declino della città e sollecita una svolta. Dalla tribuna dell’ultimo congresso della sua organizzazione ha lanciato un appello perché Torino e la regione attraggano più investimenti. Torino, in particolare, rischia di “diventare il Nord del Sud”. D’altronde, non è un caso se negli ultimi 30 anni ha perso qualcosa come 350 mila abitanti: è scomparsa cioè una città come Firenze o Bologna.
Il vero dilemma è: la classe dirigente cittadina – politica, economica, accademica, intellettuale – è in grado di essere propositiva per ridare slancio alla città? I disastri causati dai predecessori pesano come macigni, basti pensare alla scomparsa delle due più importanti banche, la Cassa di Risparmio di Torino e l’Istituto San Paolo, due colossi del credito che primeggiavano a livello nazionale. Migliaia e migliaia di posti di lavoro spariti nel nulla (o perché tagliati o perché portati nella vorace Milano). Sono i casi più macroscopici, ma l’elenco sarebbe lungo.
Il fallimento del tentativo di far sbarcare a Torino Intel e la gigafactory di Stellantis conferma la poca attrattività della città, ma anche il poco peso dei suoi dirigenti. A livello politico dopo i cinque anni del nulla “appendiniano”, ci si è affidati a un professore del Politecnico, Stefano Lo Russo che è anni luce più preparato, ma che sembra mancare di quella capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo di cui oggi ci sarebbe bisogno. E non giova a Torino il fatto che il presidente della Regione, Alberto Cirio, sia un cuneese (più precisamente un albese) con i piedi e la testa ben radicati nel suo territorio assai più dinamico e ricco della povera ex “capitale”.