Pier Carlo Sommo
I Palazzi di Torino portano di regola il nome delle nobili famiglie che li costruirono o acquisirono. L’eccezione è il palazzo oggi chiamato Campana, che sorge in via Carlo Alberto 10 sull’angolo della omonima piazza, dove ha sede la Biblioteca Nazionale.
È uno dei palazzi con la vita forse più travagliata della nostra città. E anche se seicentesco non aveva un nome fino al 1945 quando prese l’attuale denominazione di Palazzo Campana, traendo origine dal nome del caduto a cui era intitolata la formazione partigiana che occupò l’edificio il 28 aprile 1945: il marchese Felice Cordero di Pamparato detto “Campana”. Tenente di artiglieria, con il nome di battaglia “Campana”, si era unito alle prime bande partigiane autonome della Val Sangone, diventando una delle figure di maggior rilievo tra i comandanti delle formazioni in quella zona. Catturato presso Giaveno da militi delle Brigate Nere nel corso di una vasta operazione di rastrellamento, fu portato presso il comando fascista e interrogato per due giorni. All’offerta di passare nelle file fasciste rispose sdegnosamente: « A nobile, si confanno soltanto cose nobili ». Affermò di avere combattuto perché fedele soldato del Re e di preferire la morte piuttosto che rinnegare i suoi partigiani. Il 17 agosto 1944 veniva impiccato ad un balcone della piazza della stazione di Giaveno con altri tre partigiani. Fu decorato con Medaglia d’Oro al Valor militare.
Ma veniamo alla tormentata storia del Palazzo. La costruzione dell’edificio iniziò nel 1675, come parte di un vasto complesso posto nell’isolato concesso dal Duca Carlo Emanuele II ai religiosi dell’oratorio di San Filippo Neri. Il progetto era simile a quello di altri fabbricati conventuali della Torino barocca: un chiostro quadrangolare attorno al quale erano disposti la parrocchia, l’oratorio e la casa dei religiosi. Il palazzo fu terminato verso la metà del 1700, i lavori procedettero lentamente perché ebbe precedenza la chiesa di San Filippo, alla cui complessa vicenda architettonica parteciparono Guarini e Juvarra.
Nel 1801 il governo napoleonico soppresse la congregazione religiosa e l’edificio divenne caserma per il battaglionedei veliti, corpo militare al comando del principe Camillo Borghese. Nel 1814, al ritorno della monarchia sabauda, il palazzo fu restituito ai padri filippini. Con la legge Rattazzi del 1855, definitivamente soppresso l’ordine, l’edificio conventuale fu separato dagli spazi di culto e acquisito dallo Stato.
Diventò così sede del Ministero dei Lavori pubblici e sede delle Poste centrali. L’architetto Alessandro Mazzucchetti (autore a Torino della stazione di Porta Nuova insieme a Carlo Ceppi), ristrutturò completamente l’edificio. Su via Carlo Alberto trovò sede il Ministero, mentre la nuova sede postale fu aperta al pubblico nel 1861, sul lato dell’isolato rivolto verso la piazza Carlo Alberto. Con il trasferimento della capitale a Firenze nel 1865 perse la funzione di Ministero e la Posta Centrale si trasferì in un altro palazzo. L’edificio cambiò nuovamente funzione, ospitò gli uffici del Genio Civile e l’Officina Carte valori. Nel 1908 cambiò anche di proprietà, passando al patrimonio dell’amministrazione comunale.
Nel 1929 dopo lavori di riadattamento, diventò sede della Federazione provinciale del Partito Fascista, quindi fu la Casa Littoria della città. In quella funzione utilizzava solo l’unico ingresso monumentale di via Carlo Alberto. Fino a qualche anno fa, prima dell’ultima ristrutturazione del 2013, sotto uno strato di vernice si intravedeva ancora la grande scritta “Casa Littoria”. Di quel periodo rimane strutturalmente il balconcino in marmo che si affaccia sulla piazza, da dove il “Federale” o altra autorità del Regime poteva arringare la folla. Con il consolidarsi del regime la Casa Littoria accrebbe le funzioni politico amministrative accogliendo gli organi dirigenti delle varie articolazioni della Federazione del Partito fascista.
Il giorno successivo alla caduta di Mussolini, la mattina del 26 luglio 1943, il palazzo venne preso d’assalto da gruppi di manifestanti che appiccarono un incendio, che danneggiò parzialmente l’immobile, spento dopo tre ore di lavoro dai Vigili del Fuoco. Dopo l’8 settembre 1943 il palazzo tornò ad essere la sede del rinato Partito fascista repubblicano. Nei venti mesi della Repubblica Sociale nei sotterranei furono anche ricavate alcune celle, vicine al rifugio antiaereo, ancora esistente, dove furono rinchiusi antifascisti e partigiani arrestati dalle Brigate Nere.
Terminata la guerra, alla fine del 1945 il palazzo fu destinato a sede del Dipartimento di Matematica dell’ Università di Torino con il nome definitivo di “Palazzo Campana”. Oggi nell’edificio trovano collocazione laboratori informatici, didattici e di ricerca, aule per le lezioni, uffici dei docenti e del personale tecnico-amministrativo, sale riunioni, il centro di calcolo e la biblioteca. La memoria storica più vicina del palazzo è legata anche ad alcuni eventi del movimento studentesco torinese del periodo 1967-68.
Un vasto restauro nel 2013 ha riportato alla bellezza originaria gli avanzi di decori interni sopravvissuti alle complesse vicissitudini e ripristinato i colori originari delle facciate. Dopo oltre 300 anni di tormentata storia il palazzo ha trovato una definiva prestigiosa funzione e una denominazione: porta il nome di battaglia del marchese Felice Cordero di Pamparato, un eroe che onorò il Regio Esercito e la nobiltà piemontese, in uno dei momenti più difficili della storia d’Italia.