Carola Vai
I medici in prima linea nella difesa della salute altrui spesso finiscono per dimenticare la paura per se stessi, anche quando davanti c’è un pericolo grave come il coronavirus Covid-19. E’ quanto emerge dalle parole del pneumologo e specialista in medicina interna Ugo Marchisio, contagiato da un paziente e fortunatamente in fase di guarigione.
Marchisio, direttore sanitario presso i poliambulatori del Gruppo Larc Torino, per 16 anni primario del Pronto Soccorso e Medicina di Urgenza dell’ospedale Maria Vittoria di Torino, una lunga pratica con malati di ogni gravità, ha accettato di rispondere alle mie domande mettendo la sua esperienza a disposizione dei molti interrogativi.
Lei, oltre essere un medico, è uno sportivo, di costituzione fisica sana, quando ha compreso di aver contratto il virus? Quali sono state le sue prime reazioni?
Per fortuna la mia esperienza come malato di coronavirus non è stata terribile e nella maggior parte dei casi l’infezione decorre in modo asintomatico cioè non ti accorgi nemmeno di averla contratta. Una fortuna per l’interessato, visto che la malattia può anche essere mortale, ma un disastro per la collettività perché anche chi sta perfettamente bene può spandere virus e tutti possono essere degli “untori” …
Io mi sono certamente contagiato visitando qualche paziente senza una adeguata protezione. Lo confesso… all’inizio dell’epidemia, come molti altri Colleghi, presi la cosa molto “sotto gamba” e, purtroppo, con la stessa leggerezza, infettai anche mia moglie, medico legale, anch’essa esposta professionalmente ma con rischio più basso del mio. Sviluppò una polmonite e dovette essere ricoverata in ospedale per insufficienza respiratoria; ora è a casa e sta meglio.
Fisicamente come si è sentito?
La mia fu una forma lieve e molto “atipica”: solo sintomi da raffreddore, no tosse, no febbre, no insufficienza respiratoria, ma una profonda astenia, sonnolenza e indolenzimento diffuso di muscoli e articolazioni, e scarso appetito. Non ho mai avuto paura perché ero convinto – chissà perché – che i sintomi si sarebbero fermati lì senza complicazioni respiratorie o di altro tipo.
Cosa ha usato per curarsi?
Come curarsi resta ancora adesso assai nebuloso e dibattuto, vista l’assoluta novità del virus SARS-CoV-2: preso atto delle variegate e mutevoli proposte della letteratura scientifica, ho fatto soprattutto tesoro dell’esperienza sul campo degli ex-Colleghi ospedalieri e di chi era nell’occhio del ciclone (per esempio un ottimo webinar – tra i tanti – del Prof. Fabiano De Marchi, direttore della Pneumologia del Giovanni XXIII di Bergamo).
Lei è un medico abituato ad affrontare situazioni sanitarie difficili. Come interpreta il ritardo in Italia della comprensione della gravità del contagio e diffusione del coronavirus?
Come la maggior parte dei medici, pensavo che fosse una seconda SARS e rimanesse limitata fondamentalmente alla Cina. Purtroppo ci eravamo abituati a troppi allarmi apocalittici che si erano poi dimostrati, nei Paesi “Occidentali”, solo delle “bufale”: SARS, MERS, influenza suina e aviaria, Ebola, Zika… Pensavo che anche questa volta saremmo stati di vedetta nel “Deserto dei Tartari” in attesa trepidante del nulla e invece lo tsunami arrivò veramente!
Uno tsunami che ha colpito anche molti medici. Voi non dovreste essere le persone che più intuiscono il pericolo del Covid-19?
Il mio background professionale è sempre stato l’ambiente di emergenza-urgenza: ho sempre avuto a che fare con i ricoverati più gravi ed i livelli di intensità di cura più elevati. Ci si abitua a tutto, anche a convivere quotidianamente con il rischio e la morte, a non averne più terrore. Anche tra i medici e gli operatori sanitari, nella gravissima carenza di mascherine e dispositivi di protezione individuale che ha caratterizzato tutta la prima fase dell’epidemia, ho notato che i più spaventati ed i più recalcitranti ad esporsi, anche solo minimamente, al contagio erano in genere quelli meno a rischio e più abituati a trattare pazienti stabili, non in emergenza.
Tutti sostengono che solo l’isolamento sociale può sconfiggere la diffusione del virus. Quanto tempo dovrebbe durare tale isolamento? Inoltre si ha idea quale comportamento adottare nel caso l’Italia potesse superare la gravità della situazione, mentre persiste nel resto d’Europa e del mondo?
Certamente è una pandemia destinata a fare il giro del mondo più e più volte senza abbandonare del tutto le aree colpite, ma lasciando una lunga “coda” endemica. Questo è legato soprattutto alla contagiosità dei moltissimi casi asintomatici ed al persistere della presenza del virus nelle mucose di chi è già clinicamente guarito. Io stesso sono risultato positivo al tampone di controllo dopo tre settimane dall’inizio dei sintomi e dopo una settimana di guarigione clinica. Quindi distanza di sicurezza (2 metri!), mascherina sempre fuori casa e identificazione tempestiva di tutti i nuovi casi eseguendo tamponi a tappeto su tutte le persone venute a contatto con i casi noti o sospetti, nonché sulle sottopopolazioni a rischio elevato (operatori sanitari, anziani ricoverati in istituto, lavoratori operanti in situazione di front-office con il pubblico). Solo una capillare conoscenza del fenomeno epidemiologico su tutta la popolazione può guidare le decisioni sia di sanità pubblica sia di lockdown o ripresa delle attività produttive e degli eventi sociali per evitare al massimo, da un lato, i rischi e, dall’altro, inutili paralisi sociali e danni economici.
Con insistenza si dice che gli ultrasessantenni sarebbero più esposti al Covid-19, pertanto nel prossimo futuro dovrebbero restare isolati per evitare il contagio, mentre le persone più giovani potrebbero uscire e svolgere le varie attività. Non Le sembra una scelta discriminatoria? Il virus ha dimostrato di colpire a tutte le età, con casi rari sui bambini.
È vero! È una scelta discriminatoria, espressione di “ageism”, di una mentalità che non vede nell’anziano una risorsa (anche solo come “stampella” per le generazioni successive), ma solo un peso economico ed assistenziale. Il diritto alla salute e la libertà individuale di movimento, aggregazione ecc, devono essere assicurati pienamente a tutti i cittadini, senza distinzione.
Quanto poi alle politiche sanitarie attuate per contenere la pandemia, abbiamo visto alla prova dei fatti due modelli di risposta, due diverse visioni del ruolo dello Stato e del sistema sanitario: la “controllocrazia” cinese a fronte del liberismo individualistico statunitense, la censura totalitaria sull’informazione e sul web a fronte del libero proliferare delle fake news, la salute come bene comune imposto con la forza a fronte della salute come bene di consumo sul libero mercato che ciascuno può comprarsi … se ha i soldi. Chi ha studiato il fenomeno è concorde nel ritenere che la risposta migliore l’abbiano data nazioni come la Korea del Sud, Singapore e Taiwan che hanno controllato meglio di chiunque altro il contagio senza ricorrere a metodi illiberali e senza interferire troppo pesantemente sulle attività produttive. Sono regimi democratici che, facendo soprattutto tesoro dell’esperienza SARS del 2002-2003, si sono fatti trovare pronti e organizzati, hanno fatto tamponi capillarmente come ho detto prima, avevano scorte di dispositivi di protezione, hanno usato app per seguire i movimenti dei cittadini, su base volontaria ma accettata quasi da tutti per la cultura confuciano-shintoista di etica collettiva …