Dario Gedolaro
In questi giorni mi è capitano per le mani uno dei quei libri-strenna con carta patinata ed elegante veste tipografica, dal titolo: “Torino Metropoli d’ Europa”. Datato 1969, ospita, fra le altre, le firme di Guido Piovene, Carlo Casalegno, Marziano Bernardi, Mario Salvatorelli, Luigi Firpo, Leo Pestelli, Rinaldo De Benedetti. Vi si parla di una città “periferica in Italia e centrale in Europa”, che ha quindi necessità di avere collegamenti efficienti e rapporti stretti con l’ estero, di tutelare e favorire il proprio sviluppo industriale, di primeggiare in campo scientifico/universitario, senza trascurare la cura delle proprie bellezze architettoniche e naturali. Le conclusioni sono raccolte al fondo. Si afferma che la città presto “avrà cominciato a darsi un nuovo volto più razionale e armonico”, perché “ospiterà alla fine di questo secolo (cioè entro il 2000, ndr) 2 milioni e 100 mila abitanti”, ma non sarà una “pomposa Babilonia”, perché “già ora si intravedono i lineamenti di un nuovo ordine”.
Si parla della futura “Acropolis”, cioè l’ area fra corso Vittorio Emanuele, corso Peschiera, corso Inghilterra, dove vi sarebbe stata l’ “eliminazione di antiche sopravvivenze, come mattatoio, carceri, caserme, officine ferroviarie”, per insediarvi il “nuovo centro direzionale, con una dozzina di grattacieli, alti centoventi metri per gli uffici di Regione, Provincia, Comune, per le direzioni di grandi industrie e di banche ed in più con supermercati, negozi, sale spettacolo, da esposizione, caffè, ristoranti. E percorsi pedonali su tappeti mobili, ascensori, parcheggi, sotterranei a silos per trentamila automobili. Una città nella città, con i suoi viali e i suoi giardini, che di giorno ospiterà almeno 50 mila persone, di notte si muterà in colonne di luce, visibili da ogni parte di Torino”. Torino sarebbe stata servita da “tre linee metropolitane”. “Correranno nel sottosuolo, una prima tra Mirafiori e Fiat ricambi, oltre il torrente Stura, è già progettata: venti stazioni intermedie, parcheggi ai terminali, cento vetture in servizio…”. E qui mi fermo.
Se pensiamo che il 1969 non era un anno particolarmente prospero per l’ economia italiana, che Torino iniziava a essere travagliata dalla lunga stagione dei conflitti sociali violenti, possiamo renderci conto di quanta volontà di “fare” animava la classe dirigente cittadina (da quella politica a quella imprenditoriale). Il libro infatti non era una pubblicazione curata da un ente pubblico/burocratico, ma dalla casa editrice Aeda fondata da Giovanni Giovannini, cantore e interprete del mondo economico/produttivo torinese. Visione forse troppo ottimistica – si dirà – ma sicuramente orientata allo sviluppo, al contrasto della rassegnazione e della nefasta teoria della “decrescita felice”, che pochi anni dopo fu purtroppo il cavallo di battaglia delle cosiddette giunte rosse guidate da Diego Novelli e che è stata ripresa dalla giunta pentastellata guidata da Chiara Appendino. Qualcosa di quel sogno è stato fatto (penso ad esempio alla nuova stazione di Porta Susa, all’ interramento del passante ferroviario, alle Ogr), ma che cosa manca di quanto viene descritto?
Delle tre linee metropolitana che avrebbero dovuto esserci – badate bene, entro il 2000 – ne abbiamo una, dei 12 grattacieli, 1 e mezzo, dei 50 mila occupati della Acropolis, forse 5 mila (grattacielo Intesa Sanpaolo, Palazzo di Giustizia, uffici Rai, la quale Rai ha però abbandonato e venduto il suo grattacielo e ridotto da allora di almeno il 50% i propri occupati). La Stazione di Porta Susa è praticamente un deserto dei Tartari, priva quasi del tutto di attività economiche collaterali. Per non parlare degli aspetti demografici: invece di 2 milioni e 100 mila abitati, non si arriva a 900 mila, con una perdita (soprattutto per mancanza di opportunità di lavoro) di 300 mila abitanti (praticamente è scomparsa una città come Firenze) rispetto ai primi anni Settanta, ma anche con un’inversione di tendenza rispetto ai primi anni 2000, quando si era registrata una lieve ripresa: non si attirano più italiani e stranieri, i morti superano abbondantemente le nascite.
Note dolentissime sul piano economico/imprenditoriale (da allora sono scomparse le due più importante banche cittadine e si sono persi decine di migliaia di posti di lavoro nell’ industria) e urbanistico, con quelle brutte case costruite sulla Spina 3. Vittorio Cagnardi, uno degli architetti che redasse il nuovo piano regolatore di Torino, in un intervista a Repubblica di qualche anno fa parlava di “idee tradite” e sottolineava, a proposito delle nuove architetture sulla Spina 3: “Ne vede qualcuna che meriti una citazione? Ho difficoltà a trovarla. Eppure avevamo fatto studi per trovare soluzioni felici: ma ad architetto succede architetto e ognuno ci mette la sua idea. I risultati sono sotto gli occhi di tutti “. E concludeva: “Occorre rianalizzare le idee che sostengono il futuro e consentono di guardare avanti: qualcosa di diverso dalla manutenzione…”.
Al nuovo sindaco l’ arduo compito, sperando che la stagione dei dilettanti allo sbaraglio a Palazzo Civico sia definitivamente conclusa.