Dario Gedolaro
Una vergogna. Il centenario della nascita di Giovanni Agnelli, l’ Avvocato, è passato finora senza una dichiarazione ufficiale, un’ iniziativa da parte di chi amministra la città, in primis il nostro sindaco (o sindaca che dir si voglia), Chiara Appendino. Si trova solo un breve hashtag del Comune e niente più. Chi ci amministra dovrebbe custodire anche la memoria di tutti, quella che fa da cemento all’identità collettiva di un popolo, di un territorio, ma così evidentemente non è e si vede. C’è stato, come si dice con una frase un po’ abusata, un silenzio assordante, che non si giustifica nemmeno con le difficoltà create dal Covid.
Bastava poco per annunciare un futuro convegno internazionale, per un momento di incontro con familiari ed eredi (uno dei quali è solo il presidente del nuovo colosso automobilistico Stellantis e l’ altro il presidente della Juventus), per un ricordo in Consiglio comunale. La si pensi come si vuole sull’ Avvocato, ma è stata una presenza importantissima (magari addirittura un po’ troppo ingombrante, secondo qualcuno) per Torino, un ambasciatore della città nel mondo, il timoniere per decenni della più grande azienda manifatturiera cittadina e italiana, colui che ha contribuito in modo determinante a dare alla città le Olimpiadi invernali del 2006. Non a caso davanti al suo feretro nel 2003 sfilarono (inaspettatamente e spontaneamente, si badi bene) più di 100 mila persone. Una ragazza dichiarò ai microfoni delle tv: “Sono qui è perché se ho potuto studiare e laurearmi devo dire grazie alla Fiat, che ha dato pane e lavoro ai miei genitori”. Interpretava il sentimento dei molti cittadini che si erano recati alla camera ardente. Perché non rispettarlo anche oggi?
Come ha sottolineato l’ economista ed ex ministro Domenico Siniscalco in una recente intervista al Tg3 Piemonte: “L’ Avvocato era un torinese molto radicato sul territorio”. In una vecchia intervista alla Rai, nei difficili Anni 80, lo stesso Agnelli, manifestava questo suo attaccamento: “Anche se Torino non fosse la localizzazione ideale, rimane la capitale del nostro gruppo”. Ad un suo stretto collaboratore, non torinese, Agnelli confidava: “Torino è una bellissima città, da cui si può arrivare e partire da e per qualunque posto del mondo”. A un’assemblea della Fiat, di fronte a un piccolo azionista che sottolineava come la Juventus (allora inserita nell’orbita Fiat) non solo non rendesse nulla, ma costasse pure dei soldi (a parte che molti di essi li sborsava personalmente lui), replicava: “La Juventus è come un’ obbligazione che abbiamo con questa città da cui abbiamo avuto moltissimo. E come tutte le obbligazioni non pensiamo che debba rendere”. Infatti, non vedeva di buon grado la deriva del calcio professionistico verso una gestione di tipo finanziario e imprenditoriale, ma a quel punto non gestiva più lui l’ amata Juventus, che era passata nelle mani del fratello Umberto, di cui rispettava l’ indipendenza gestionale.
Purtroppo, morto lui e suo fratello, molte cose sono cambiate nel rapporto fra Torino e quella che una volta si chiamava la Fiat. D’ altronde, come si può pretendere che gli eredi abbiamo un particolare affetto e attenzione per Torino, se la città – la città ufficiale – praticamente li ignora? Insomma, si possono avere opinioni diverse sull’ Avvocato, ma il suo ruolo fondamentale per Torino è innegabile. Molti leader mondiali invitati in Italia per visite ufficiali passavano da Torino, chiamati da Giovanni Agnelli (celebre la visita della regina Elisabetta), e per la città era un momento di grande visibilità internazionale.
Non è mai stato un reazionario. Era un democratico nel senso più politico della parola: non amava gli estremismi, non era un conservatore, era un simpatizzante noto per il Partito Repubblicano di La Malfa. Il regista Nick Hooker, autore di un documentario su di lui, ha recentemente ricordato: “Un ex agente della Cia mi ha detto che negli anni ’70 c’era una fazione dell’Agenzia che sarebbe voluta intervenire in modo stupido e pericoloso in Italia, attraverso qualche azione. Agnelli ha detto agli americani di non azzardarsi”. Il docufilm racconta la vita da protagonista dell’Avvocato, fra trionfi e sfide pubbliche, ma anche drammi privati, fra i quali il più grande è stato il suicidio del figlio Edoardo. Lo fa attraverso una grande mole di materiale d’archivio e soprattutto decine di interviste con familiari, amici, come John Kissinger («Era pericoloso pensare davanti a Gianni, perché ti leggeva la mente»), collaboratori. Ne esce il ritratto costruito in capitoli, di un uomo intelligente, brillante e di grande fascino; amante del coraggio, anche fisico, delle donne. Hooker presenta Agnelli come il simbolo dell’italianità vincente che non si è fatto intimorire nemmeno della Brigate Rosse, l’amante dell’arte. Ma non nasconde i lati negativi, come l’ essere stato un padre un po’ troppo assente (“Era un nonno fantastico – dice Lapo Elkann – non l’avrei voluto come padre”) e l’ avere avuto qualche eccesso giovanile, come l’uso di cocaina.
Non era necessario fare celebrazioni agiografiche, ma non fare nulla vuol dire ignoranza o, peggio, ottusa ostilità. Allinearsi alla faziosità peggiore, quella di una sinistra che dimentica il rapporto di grande stima fra Giovanni Agnelli e il leader della Cgil Luciano Lama. Nel 1975, come presidente di Confindustria, Gianni Agnelli firmò l’accordo con Lama e gli altri segretari generali sindacali sul punto unico di contingenza, per garantire il potere di acquisto dei salari nei confronti dell’ inflazione. Accordo che si rilevò alcuni anni dopo a sua volta generatore di inflazione e un referendum lo abolì, ma che dimostra indubbiamente sensibilità sociale.
Bruno Vespa in un articolo su Il Giornale di qualche anno fa ricorda: “L’ Avvocato mi disse apertamente che avrebbe visto con favore un sistema di cogestione dell’azienda con i sindacati, secondo l’uso tedesco”, eravamo negli Anni Settanta in pieno periodo del terrorismo.
Dunque parliamo di un imprenditore di ampie vedute, che, con i suoi pregi e i suoi difetti, cercava di non arroccarsi sulla pura difesa dei propri interessi. Aveva senso civico e difendeva l’ immagine del suo Paese: quando nel 2001 la stampa estera definì l’Italia che stava per andare al voto e portare al governo Berlusconi: “Una repubblica delle banane”, reagì con un’ intervista all’Ansa: “Non siamo una repubblica delle banane e l’ elettore italiano è un elettore di un paese civile”.
Vedi anche:
http://www.viavaiblog.it/giovanni-agnelli-e-la-sua-passione-per-i-cani/