Carola Vai
“Per tanti sono solo dei numeri. Per me, mio padre e mia padre. Avevano 74 e 72 anni. Erano in buon salute. E sono morti di coronavirus. Soli. In due ospedali diversi. Senza che abbia potuto dare loro un ultimo abbraccio. Una vita di fatiche, di lavoro, vissuta senza una lamento. Distrutta senza un perché. Mio padre, mia padre, credenti convinti, scomparsi in totale solitudine. Come tante altre vittime. Numeri insieme ad altri numeri. Ma per me, per i famigliari, amici, conoscenti erano e restano genitori, nonni, persone amate, e che tanto amavano”. Così, un’amica, al telefono, mi ha annunciato con voce piatta, interrotta dai singhiozzi, il suo straziante dolore
Una storia, come tante in Italia, quella dei genitori della mia amica. Meccanico lui, maestra lei, si erano conosciuti e subito innamorati poco più che ventenni. Due anni più tardi erano marito e moglie. La mia amica nacque quando mamma e papà avevano da poco festeggiato i primi 30 anni di vita. Coppia allegra, indipendente, abituata a gestire la quotidianità senza creare problemi all’unica figlia. Hanno affrontato ogni ostacolo quasi sempre con il sorriso. Per la figlia volevano il meglio dalla vita, anche se loro, della propria esistenza, erano soddisfatti. Così , tra fatiche, risparmi, mille attenzioni economiche e pure di comportamento, hanno donato alla loro bambina un’infanzia e una giovinezza serene. Per celebrare la laurea hanno organizzato una festa nel ristorante che frequentavano da fidanzati. Pochi mesi dopo la loro “bambina” , ormai dottoressa, veniva assunta in una nota azienda. E iniziava una vita frenetica fatta di valige, aerei, treni, taxi. Loro, mamma e papà, sempre pronti ad accompagnarla all’aeroporto, a volte pure alla stazione, senza nessuna critica o lamentela. Felici in quei brevi spostamenti di poter ridere, scherzare, fare qualche raccomandazione. Poi arrivarono le nozze anche per la mia amica, con un uomo in continuo spostamento per lavoro. Mamma e papà dovettero rinunciare ad accompagnare all’aeroporto la figlia , limitando il rito nelle occasione delle assenze del genero, accolto come un figlio. Anni felici scanditi da tanti libri di cucina, per lo più sui dolci, scritti in lingua italiana, che la mia amica portava ai genitori. Loro, poi, sperimentavano tra i fornelli di casa fino quando, ritenuto il risultato eccellente, organizzavano un pranzo con figlia e genero. Una vita tranquilla, soffocando la paura. Anche quando rasentava il terrore, come accadde quando la figlia, di passaggio a Bruxelles, nel marzo 2016, scampò all’attentato che distrusse l’aeroporto, grazie al ritardo del taxi che doveva prelevarla dall’albergo. Una vita fatta di lavoro, fatica, per acquistare la prima casa, per pagare gli studi universitari alla figlia. Entrambi orfani da bambini, hanno fatto il possibile per costruirsi un’esistenza felice. Fino lo scorso mese di febbraio, quando anche in Italia si comincia parlare con crescente insistenza del diffondersi del coronavirus.
Loro si muniscono di mascherine e guanti per proteggersi. La mia amica decide di non andare a trovarli nel timore di eventuali contagi, poiché proseguiva nei viaggi per lavoro. Precauzione inutile. All’inizio di marzo il padre è colpito da una noiosa febbriciattola. Qualche giorno, e la situazione si aggrava. Finisce in ospedale. Prima di lasciare l’abitazione trova la forza di dire a moglie e figlia: “non preoccupatevi. Guarirò presto”. Due giorni dopo anche la mamma viene ricoverata. Prima di scomparire dentro l’ambulanza che la trasporta in ospedale, in un ospedale diverso da quello dove si trova il marito, riesce a dire alla figlia: “tranquilla. Torneremo presto”. Invece tutto precipita. In pochi giorni.
Muoiono. Entrambi. Soli. “Non erano numeri. Erano i mei genitori. La mia vita non sarà mai più la stessa”, ripete tra le lacrime la mia amica. Un dolore immenso il suo, come quello di tanti figli, parenti, amici di altre migliaia di vittime uccise in Italia da un maledetto coronavirus sconosciuto. Un nemico il cui emergere fosse stato annunciato per tempo dai governanti, forse avrebbe distrutto un numero inferiore di vite. Forse avrebbe causato meno dolore. Forse non minerebbe la salute di molti italiani. Forse non starebbe distruggendo l’economia dell’Italia. Invece l’epidemia è stata lasciata entrare tra le maglie della società italiana fino a quando il numero delle vittime ha cominciato spaventare le aree inizialmente colpite dal dramma. Nonostante il dilagare del dolore, da più parti si è attribuito il diffondersi del contagio “per lo più tra persone anziane, già affette da varie patologie”. Quando la verità ha fatto emergere che il virus si divorava, e si divora, la vita pure di sessantenni, cinquantenni, quarantenni e persino trentenni, si è parlato di “immunità di gregge”, frase che sarebbe meglio trasformare in “immunità di persone”, visto che non siamo pecore. Cosa significa? Che l’epidemia uccide chi è fisicamente debole e lascia indenne chi ha la fortuna di essere forte. Un modo assurdo di giustificare il dilagare di un contagio che probabilmente poteva essere contenuto se affrontato con determinazione all’inizio, perché le vittime “non sono solo numeri, ma persone che morendo lasciano un immenso vuoto, un dolore perenne in chi era loro affezionato”. Ora l’epidemia sta provocando uno shock senza precedenti. In tutto il mondo. Sarà la storia a giudicare se l’emergenza poteva essere contenuta.