Carola Vai
I compromessi e gli interrogativi in questo periodo di Coronavirus sono tanti. Ho chiesto qualche chiarimento ad un esperto già noto ai lettori: lo pneumologo e specialista in medicina interna *Ugo Marchisio, contagiato da un paziente e fortunatamente in fase di guarigione, anche se più lunga del previsto. Tra le domande più discusse: la decisione di aprire i negozi alimentari a orario ridotto per frenare il contagio del virus che però contribuisce a creare lunghe code di acquirenti. Tale formula ha una spiegazione ? Il contagio ha forse un orario preferito? Insomma il virus circola meno al mattino e più al pomeriggio o di sera?
Credo che le soluzioni di compromesso, come in questo caso, non siano quelle migliori: riaprire ma con orario ridotto non fa diminuire il rischio in modo significativo, ma crea notevole disagio e mugugno. I compromessi nascono forse dalla paura dei governi – nazionale e regionali – di perdere consenso e fare dei passi falsi, con ripercussioni immediate su chi vota, senza guardare, come diceva De Gasperi, alle future generazioni ma solo alle future scadenze elettorali…
Perché il virus sembra aver colpito (e colpire) maggiormente i Paesi ricchi rispetto a quelli poveri?
L’epidemia sembra prendere piede, com’è logico d’altra parte, in aree densamente popolate e, al contempo, interessate da intenso movimento di persone con l’esterno: metropoli come Milano e New York, zone iperindustrializzate e con continui movimenti di merci e persone, come le Provincie di Bergamo e Brescia. Potrebbe quindi essere solo un ritardo del contagio, solo una questione di tempo e non una reale riduzione del numero di casi. Teniamo poi presente che i dati epidemiologici forniti dai Paesi a basso reddito sono in genere più disomogenei ed incompleti dei nostri, per non parlare della censura che operano i governi prima di diffonderli… Infine, non dimentichiamo che il coronavirus è letale soprattutto per la popolazione anziana e nei Paesi poveri l’età media è nettamente più bassa; lo stesso vale per i soggetti “fragili” (immunodepressi, malati cronici gravi ecc) che in questi Paesi hanno vita molto breve e costituiscono una esigua minoranza…
Da più parti si dice che le scelte per contrastare la diffusione del virus penalizzano la democrazia e la libertà dei Paesi Occidentali. Quali altre formule dal punto di vista sanitario si potevano adottare per evitare il “modello tutti a casa”? E cosa dire del “modello cinese”?
Una riflessione molto intelligente in merito è stata proposta da Byung-Chul Han, filosofo coreano che vive a Berlino e quindi conosce bene la mentalità “confuciana” come quella “occidentale”. Sostiene che sentirsi completamente controllati, come singoli individui, da una “biopolitica digitale,” al punto di non avere più alcuna privacy, non dà fastidio al cittadino dell’Estremo Oriente, anche in regimi democratici come quello della Corea del Sud. Tutti partecipano, con fanatismo informatico, al successo del proprio Paese, anche sacrificando la propria personale libertà; per usare le sue stesse parole, “la digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva” per cui, alla biopolitica digitale, si affianca una “psicopolitica digitale”.
Quanto al lockdown, alla cinese o all’italiana che sia, è chiaro che non costituisce la soluzione del problema, ma
solo un provvedimento temporaneo per “guadagnare tempo”, cioè rallentare l’impatto dell’epidemia sul servizio sanitario e sulla società, diluire nel tempo i nuovi casi e dare modo al sistema di attrezzarsi per affrontare al meglio lo tsunami: reperire/ricominciare a produrre i dispositivi di protezione, aumentare la capienza degli ospedali e delle terapie intensive, procurare i tamponi e chi li sappia analizzare, organizzare la “caccia” a tutti i contatti dei casi infetti ecc. “#iorestoacasa” deve durare il minimo indispensabile per raggiungere, lavorando tutti alacremente al massimo, questi obiettivi, non un nuovo stato di cose destinato a durare in eterno.
L’epidemia Covid-19 ha sorpreso il mondo. Eppure nei secoli scorsi varie pestilenze hanno provocato milioni di vittime. Lei, immagino, ne ricorda alcune. Si può imparare qualcosa dalla storia di quei drammatici eventi? La tragedia dei nostri giorni cosa ha in comune con quelle del passato?
Oggi, Carola, Lei mi pone delle domande cui devo rispondere non tanto come medico, ma piuttosto come cittadino se non addirittura come essere umano nell’accezione più ampia del termine … Sono un cultore della formazione umanistica e ho fatto il liceo classico per cui credo molto, in merito alla salute, nell’importanza di quelle che oggi si chiamano “Medical Humanities”, cioè quelle discipline del pensiero umano che non hanno una base scientifica, ma che concorrono alla comprensione del senso della vita, di se stessi e del proprio stato di salute: filosofia (avevo nove al Liceo Cavour in Filosofia…), sociologia, spiritualità, estetica… Ripensando alle pestilenze dall’origine dell’uomo ad oggi, cerco di interpretarle come un fenomeno umano più che epidemiologico; oltre agli innumerevoli film distopici e fantascientifici sul soggetto, mi tornano alla mente i grandi capolavori letterari che hanno esplorato il fenomeno in chiave esistenziale, biografica, non biologica … Oltre all’inevitabile Manzoni, penso a Camus, Boccaccio, Garcia Marquez, Saramago … Ci offrono di fatto preziosi suggerimenti di circa quelle che gli psicologi chiamano “coping strategies”, cioè strategie mentali per “venire a patti”, sopportare, superare, lo stress generato da questa situazione negativa. Ci insegnano la resilienza, come sopravvivere mentalmente e umanamente al tempo del coronavirus. Perché paura, solitudine e falsità restano gli spettri più duri da affrontare in tempo di pestilenza, come insegna il saggio manzoniano sulla “Colonna Infame”.
Il “governo” dell’informazione intorno alla salute è un nodo etico molto delicato. Quali problemi il Covid-19 ha fatto emergere in questo settore?
Assistiamo al banco di prova della “controllocrazia” orientale in contrapposizione con la tradizionale risposta modulata e la libertà di espressione dell’Occidente con quanto ne consegue di contraddizioni e fake news, ma anche di rispetto delle libertà individuali, della privacy in primo luogo. Più che il tipo di regime, credo che il discernimento come cittadini vada fatto tra i governi che hanno l’obiettivo di tutelare e promuovere il benessere dei loro cittadini e quelli che si muovono nell’ottica di utilizzare il coronavirus come un ritrovato “nemico” esterno che giustifica mosse da “shock economy”, come direbbe Naomi Klein, devastanti per la democrazia e per gli strati più deboli della popolazione, che non sarebbero mai state accettate in un regime di normalità. Muri che si rialzano ai confini tra gli stati europei che li avevano abbattuti, Orbàn che si autoconferisce un’autorità quasi-dittatoriale, l’“uomo forte unico al potere” – chissà perché un uomo e non una donna … – da molti invocato anche qui da noi, la stessa esaltazione del “modello cinese” per affrontare con metodi totalitari, e quindi automaticamente efficaci ed efficienti, il coronavirus ecc.
*Ugo Marchisio, direttore sanitario presso i poliambulatori del Gruppo Larc Torino, per 16 anni primario del Pronto Soccorso e Medicina di Urgenza dell’ospedale Maria Vittoria di Torino, una lunga pratica con malati di ogni gravità.