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Dario Gedolaro

Lo spettacolo che dà il parlamento italiano non è dei più edificanti. Uno potrebbe dire “chi se ne frega”, ma invece dovremmo “fregarcene” tutti molto, perché sono in ballo le libertà democratiche del Paese. Non dovremmo mai dimenticare che la nostra Repubblica nasce sulle ceneri (è proprio il caso di dirlo) del ventennio fascista, che a sua volta travolse la ancora fragile monarchia costituzionale italiana. La travolse sotto un profluvio di insulti e di gazzarre violente. La sbeffeggiava sostenendo che “la democrazia è quel sistema politico che raggiunge il minimo risultato col massimo sforzo”.

L’avvento del comico Beppe Grillo ha fatto fare al dibattito politico italiano del dopoguerra un salto in avanti deleterio. Una decina di anni fa Il Foglio fece una sorta di riassunto del turpiloquio grillesco. Dopo avere ricordato i “vaffa” distribuiti a piene mani, rammentava come i rivali politici fossero stati definiti “larve, zombie, morti, ladri”.  Definiva “psiconano” Silvio Berlusconi, “ectoplasma” Enrico Letta, “salma” il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, “vecchia puttana” Rita Levi Montalcini. Nell’ augurio di Capodanno 2013, i politici nel complesso furono descritti come “facce di bronzo, facce di merda, facce da impuniti”, e “parassiti, pidocchi, mignatte, zecche… virus che si spacciano per miracolosi medicinali”. Una riedizione, forse anche un pochino accentuata, del lessico fascista.

Ma Grillo, tanto criticato dalla sinistra, divenne poi un utile alleato del Pd per scalzare il governo M5S-Lega, che era stato bollato proprio dal segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, come “il peggiore dal Dopoguerra in poi”.

Giorgia Meloni

Sdoganato Grillo, le esagerazioni lessicali e le intemperanze psicomotorie sono diventate comuni fra i nostri rappresentanti in Parlamento. Lo abbiano verificato anche in occasione del discorso alla Camera del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni sulla politica estera del governo. Come in altre occasioni le opposizioni erano in agguato, attendendo uno spunto, pur piccolo che fosse. E Giorgia Meloni glielo ha dato prendendo le distanze da quel  “manifesto di Ventotene” diventato a quanto pare un libro sacro della sinistra, un dogma intoccabile dell’europeismo ante litteram, anche per chi ha militato in quel PCI che fu l’unico partito italiano a votare nel 1957 contro il mercato comune (MEC), primo passo verso l’Ue, definendolo “la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. Fra l’altro, i partiti comunisti europei osteggiarono anche la CED, che avrebbe dovuto creare un sistema di difesa comune europea, mai entrato in vigore per il voto contrario del Parlamento francese. La stessa cosa vale per la Nato, un’alleanza militare aborrita (almeno fino a metà anni ’70) dai comunisti europei. Non solo, nel 1978 il Pci di Enrico Berlinguer si pronunciò contro il Sistema monetario unico europeo e il Psi di Bettino Craxi si astenne. E che dire del M5S che voleva indire un referendum contro l’ euro?

De Gasperi e la figlia Maria Romana in Trentino

Acqua passata, si dirà, ma forse è bene ricordarsene. Ma torniamo al casus belli, il “manifesto di Ventotene” che fu scritto nel 1941 da Altiero Spinelli (comunista, espulso dal partito per avere criticato il terrore staliniano) ed Ernesto Rossi (del movimento Giustizia Libertà di ispirazione socialista). Spinelli poi ne ammise limiti ed errori. Ebbene, credo che pochi l’abbiano letto integralmente (anche fra i parlamentari). Il Corriere della Sera ha cercato di giustificarlo (vista l’epoca in cui fu redatto, con il dilagare del fascismo e il crollo delle democrazie europee, e il fatto che i due estensori erano al confino in quanto antifascisti) e nobilitarlo, perché contiene in sé alcuni concetti sicuramente lodevoli. Ma non è certamente alla sua impostazione che si ispirarono i veri “padri fondatori” dell’Unione Europea, i leader democratico-cristiani di Italia, Francia e Germania, De Gasperi, Schuman e Adenauer, tre giganti della storia che sulle ceneri di unaguerra tragica voluta dal nazifascismo cercarono una strada per far uscire l’Europa dai suoi conflitti secolari.

Da leader liberal democratici non condividevano i passaggi del manifesto letti da Giorgia Meloni. Ed eccoli: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”; “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”; “nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”; “nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni”; “la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.

L’ex vicedirettore del Corriere della Sera, Pier Luigi Battista, ha affermato su Il Giornale: “Quel manifesto va letto. E se lo leggi ti accorgi che non c’è scritto “viva l’Europa”. C’è scritto cosa loro volevano che diventasse l’Europa”. Ovvero: “Un superstato che abolisse per decreto gli stati nazionali, diretto da una “dittatura rivoluzionaria”, c’è scritto proprio così. Cioè da una oligarchia che si autonominava depositaria dei valori da incarnare a prescindere da qualsiasi forma di consultazione popolare.

E Carlo Calenda, leader di Azione, ha commentato: “Siamo un paese che non è serio se fa una bagarre in parlamento di questo tipo per un documento scritto durante il nazifascismo. E’ come se non riuscissimo a fare pace con la Storia in un momento in cui dovremmo parlare della storia che c’è oggi“.

Siamo un Paese che ha smarrito la strada del sano confronto democratico. Sarebbe meglio ritrovarla al più presto.

EUROPA: E’ FINITO IL COMODO, PICCOLO MONDO ANTICO

Author: Pier Carlo Sommo

Torinese, Laureato in Giurisprudenza, Master in comunicazione pubblica e Giornalista professionista. Dal 1978 si occupa di comunicazione e informazione nella pubblica amministrazione. Ha iniziato la carriera professionale presso la Confindustria Piemonte. Dopo un periodo presso l'Ufficio Studi e Legislativo della Presidenza della Regione Piemonte nel 1986 è diventato Vice Capo di Gabinetto e Responsabile Relazioni Esterne della Provincia di Torino Dal 1999 al 2020 è stato Direttore delle Relazioni Esterne e Capo Ufficio Stampa dell'ASL Città di Torino. Autore di saggi, articoli e ricerche, ha pubblicato numerosi volumi e opuscoli dedicati alla comunicazione culturale - turistica del territorio. È docente in corsi e seminari sui problemi della comunicazione e informazione presso le società di formazione pubbliche e private . Professore a contratto di Comunicazione Pubblica presso l'Università di Torino e Università Cattolica. embro del Direttivo del Club di Comunicazione d'Impresa dell’Unione Industriale di Torino, dal 2005 al 2008 è stato Vice Presidente. Presidente del Comitato scientifico di OCIP Confindustria Piemonte Membro del Comitato Promotore dell' Associazione PA Social, È stato Segretario Generale Nazionale dell'Associazione Comunicazione Pubblica e Istituzionale dal 2013 al 2020.