Dario Gedolaro
Nonostante la discesa in campo del solito circo Barnum del mondo dello spettacolo, di quello della cultura, l’appoggio di buona parte dei più importanti media, Kamala Harris ha perso le elezioni americane e il Partito Democratico è arretrato sia alla Camera che al Senato. Insomma, la vittoria di Trump è stata di un margine più ampio di quanto previsto.
C’è da dire innanzi tutto, che a noi italiani la vicenda di Trump ricorda quella di Silvio Berlusconi, che ha avuto una storia imprenditoriale/politica/personale per molti versi simile a quella del miliardario americano. Come Berlusconi, dopo una sconfitta elettorale si è ripreso la rivincita ed è tornato a guidare il Paese. Con un certo orgoglio nazionalista potremmo dire che Trump è un epigono di Berlusconi, ne ha riproposto gli elementi comunicativi (uomo di successo, donnaiolo) e populistici (ricordate la firma in tv del “contratto per gli italiani”?), l’approccio poco ortodosso nei rapporti internazionali (come il famoso “lettone” in cui ha fatto dormire l’ospite Putin), il richiamo ai valori tradizionali e cristiani, le gaffe, le campagne elettorali pittoresche e dai toni coloriti. Non due conservatori passatisti, ma capaci di non perdere voti nel proprio elettorato di riferimento e di raccogliere le domande di classi sociali in fermento o cadute in difficoltà sul piano economico-sociale, di ergersi a paladini della società civile operosa opposta a una casta politica inefficiente, di presentarsi come uomini di impresa scesi in campo contro la burocrazia inefficiente, il peso eccessivo delle tasse e una sinistra fru-fru. C’è, poi, un ulteriore parallelismo: anche il neo presidente degli Usa ha il cammino costellato di trabocchetti e sgambetti, in particolare giudiziari cui spesso cerca di ricorrere il cosiddetto mondo progressista per ribaltare le sconfitte elettorali.
E, infine, come per Berlusconi,il peggior nemico di Trump è Trump stesso. Quando si assurge a cariche istituzionali di vertice bisogna saper contenere la propria esuberanza, moderare i comportamenti pubblici e privati, evitare di diventare una macchietta, perché gli elettori vogliono avere punti di riferimento rassicuranti e solidi.
Ma perché Kamala Harris ha perso? Sicuramente un peso ha avuto la vicenda Biden, che il Partito Democratico ha tardivamente messo da parte. Ma c’è dell’altro. Kamala Harris e il Partito Democratico hanno commesso un errore comune a tutto il progressismo occidentale: la supponenza. L’infortunio più grave è stato commesso da Biden, che ha definito “spazzatura” gli elettori di Trump, e lei ci ha messo del suo, descrivendo Trump come uno “squilibrato” e un “fascista”. Poi alla fine della campagna elettorale, forse perché non si sentiva troppo sicura del consenso, ha raschiato il fondo del barile del radicalismo chic, dichiarando pubblicamente che se avesse vinto avrebbe liberalizzato del tutto l’uso della marijuana. In un Paese alla presa con gravissimi problemi di droga – come dimostrano le drammatiche statistiche sul consumo di fentanil (il maggior responsabile negli Usa degli oltre 100 mila morti dal 2021 ad oggi) – e di criminalità legata allo spaccio, probabilmente ha vellicato i giovani e i non più tanto giovani spinellatori, ma spaventato le famiglie (sarà un caso che fra afroamericani e ispanici sia andata peggio del previsto?). Su alcuni temi delicati e problematici, come questo, Harris si è dimostrata superficiale, come lo sono del resto i radical chic. E così ha cavalcato l’ “isteria” (il termine è del sociologo Luca Ricolfi) del politicamente corretto (che in America sostiene tesi estreme), ha cercato di catturare il voto femminile agitando lo spettro dell’abolizione dell’aborto (ma l’ha avvantaggiata l’essere favorevole a un suo allargamento fino alla 28/ma settimana?), ha mandato all’attacco il mondo dorato dello spettacolo. Insomma, è apparsa la paladina di quelle élite che praticano “l’inclusione che esclude” tutti quelli che non la pensano come loro.
Ora abbiamo a che fare con un presidente degli Stati Uniti “scomodo”. Certi suoi eccessi verbali non possono non lasciare perplessi, la volontà di difendere con dazi di ogni genere i prodotti americani non può non preoccupare, così come quella di ridurre l’impegno militare nelle varie parti del mondo. D’altro canto, se fosse vero che ha la ricetta (magica?) per far finire il conflitto russo-ucraino e risolvere le tensioni esplosive nel Medio Oriente, non ci sarebbe che da rallegrarsi. Vedremo.