Dario Gedolaro
Chi di spada ferisce di spada perisce. Mai come nella vicenda per la presidenza della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino – la terza più ricca d’ Italia fra le fondazioni di origine bancaria – questa massima evangelica appare azzeccata. Fabrizio Palenzona che aveva accoltellato alla schiena “l’amico” Giovanni Quaglia per togliergli la presidenza della Fondazione CRT, dopo solo un anno si è dimesso, cacciato in sostanza dal suo consiglio di amministrazione. Si è parlato del moto di orgoglio (sarebbe il primo dopo tanto tempo) del “sistema Torino” contro chi sembrava voler fare della Fondazione CRT la grande elemosiniera per interessi lontani ed estranei alla città.
E’ l’epilogo di un rinnovo cariche molto travagliato. Uno scontro ingarbugliato dove vi sono anche “traditori” che tradiscono a loro volta il nuovo capo. Tutto nasce da altre dimissioni, quelle del membro del Consiglio di indirizzo (una sorta di parlamentino della Fondazione),Corrado Bonadeo, ideatore di una proposta di “patto di consultazione” preventivo fra i 22 consiglieri di indirizzo per pilotare le scelte e le cooptazioni. Bonadeo è stato uno dei sostenitori di Palenzona e la mossa è strana. Fatto sta che al suo patto si dicono disposti ad aderire ben 12 consiglieri sui 17 già in carica, e, quindi, la maggioranza, Palenzona non ne sapeva nulla? Chissà. Comunque alla fine, tramite il neo segretario generale della Fondazione, Andrea Varese, spedisce un dossier al Mef, prefigurando violazioni statutarie e costringendo Bonadeo a lasciare. Peccato che di tutto ciò non avesse informato prima il consiglio di amministrazione. Quando il ministero rimanda il dossier al mittente lavandosene le mani, c’è la resa dei conti. Non era mai accaduto in uno dei più ambìti salotti torinesi, ricco di un patrimonio di quasi 3 miliardi di euro.
Quattro consiglieri di amministrazione su sette – Caterina Bima, Anna Di Mascio, Antonello Monti e Davide Canavesio – chiedono e ottengono la testa di Varese e, per far capire a Palenzona chi comanda, cacciano fuori dalla stanza in cui si dibatte la questione il suo braccio destro, Roberto Mercuri, marito di una sua nipote, una sorta di plenipotenziario durante le sue assenze. A proposito di Mercuri si narra un aneddoto: quando un consigliere gli chiede il numero di telefono del presidente per parlargli, avrebbe risposto: “Gli mandi una mail, non risponde mai al telefono”. In ambienti in cui anche la forma conta moltissimo l’episodio crea ulteriore malumore.
D’altronde, Palenzona aveva dato la scalata alla presidenza della Fondazione (di cui è stato a lungo consigliere), infischiandosene del ruolo del Comune di Torino, della Regione Piemonte e del sistema camerale e incurante del fatto che il suo predecessore, il prof. Giovanni Quaglia – molto apprezzato per come aveva fatto il presidente – volesse ricandidarsi. Con la determinazione che lo contraddistingue e che lo ha fatto arrivare ai vertici di Unicredit e di varie società (dalle autostrade agli aeroporti) Palenzona vellica soprattutto i componenti del consiglio di indirizzo che vengono dalle provincie, come lui che è di Tortona. Li ingolosisce promettendo di spostare il focus della Fondazione da Torino al territorio (il che vuol dire distribuire risorse economiche in giro per il Piemonte e anche fuori da esso). Alla fine intorno a lui si raccoglie un gruppo eterogeneo e una maggioranza risicata. Da notare che Quaglia e Palenzona passavano per amici ed avevano militato insieme nella Democrazia Cristiana, uno come apprezzatissimo presidente della Provincia di Cuneo (Quaglia) e l’altro come Presidente della Provincia di Alessandria.
Ben presto ci si rende conto che gli interessi di Palenzona sono lontani dal capoluogo piemontese, che ormai da tempo sono a Milano e Roma. Ma allora perché candidarsi alla presidenza della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino? Perché Palenzona, spiegavano i bene informati, aveva bisogno di un trampolino di lancio per puntare alla poltrona di presidente dell’ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio italiane) o a quella di presidente della Cassa Depositi e Prestiti.
Tutto è sembrato avvalorare questa ipotesi. Al contrario di Quaglia, Palenzona si è visto pochissimo in Fondazione CRT. Altro sgarbo alla torinesità, di cui alcuni consiglieri d’amministrazione si sentono rappresentanti e custodi. Si può immaginare, poi, lo sconcerto quando emerge che Palenzona ha deciso di mettere soldi nella Banca di Asti, in quella del Fucino e in una cantina vinicola dall’alessandrino (sua terra d’origine), Enosis, cui ha destinato un investimento sostanzioso: 20 milioni di euro.
Il vaso è colmo e sono iniziate le manovre per detronizzare Palenzona, facendogli capire che Torino non è un vil borgo selvaggio da governare con la iattanza di un proconsole dell’antica Roma. E così, quando si è trattato di scegliere fra le terne di consiglieri proposte dalle varie istituzioni le bocciature sono state clamorose e le promesse di Palenzona sono andate in fumo. Ci hanno lasciato le penne personaggi come l’ex presidente della Regione Piemonte, Enzo Ghigo, l’ex segretario regionale del Pd, Gianfranco Morgando, e il candidato di Fratelli d’Italia, Annalisa Genta.
Tutto precipita: nell’ ultimo “Gran consiglio” Palenzona si collega solo da remoto e non gli danno retta neppure per le nomine nelle importanti società partecipate, OGR, Ream, Equiter. Il segnale è evidente e Palenzona lascia con una lettera di fuoco, in cui emerge tutto il disagio da lui creato nell’unico anno di presidenza: “Non posso tollerare maldicenze e comportamenti opportunistici né tantomeno giungere a compromessi sull’etica o sulla legalità. Mi riferisco a quest’ultima riguardo al pessimo spettacolo offerto nei tempi più recenti da taluni componenti degli organi sociali, che hanno cercato di piegare a logiche spartitorie la gestione di un ente volto invece all’aiuto filantropico e al sostegno di iniziative sociali ed economiche a favore della cultura e della scienza, da dispiegarsi nelle comunità territoriali e nel Paese in coerenza con la missione propria delle Fondazioni Bancarie”. Uno smacco che si aggiunge a quello subito all’ACRI.
Quale morale emerge da questa vicenda? Innanzi tutto che la classe dirigente torinese ha avuto un sussulto di orgoglio, dopo gli schiaffi ripetuti ricevuti a livello industriale (vedi vicenda Stellantis, ma non solo) e politico, campo in cui conta poco o nulla a livello nazionale. Poi che il sindaco Stefano Lo Russo deve uscire dal guscio e non pensare solo alla seconda linea di metropolitana o al fumo per le strade, ma fare in modo che la città sia attrattiva non tanto dal punto di vista turistico, quanto da quello economico/industriale.
Bisogna attrarre capitali, cercare di turare almeno in parte i buchi neri lasciati dalle due banche cittadine (la Cassa di Risparmio di Torino e il Sanpaolo), dall’ex FCA, dai tanti piccoli e medi trasferimenti a Milano (l’ultimo in ordine di tempo quello di Eataly). Ci vuole un “sistema Torino”, che metta insieme le forze migliori, delle professioni, delle università, del mondo dell’industria e della finanza, tutte orientate al rilancio della città. Non bisogna che si ripeta, nel disinteresse della politica cittadina, l’accantonamento di un uomo di valore come Giovanni Quaglia. E’ un sogno?