Dario Gedolaro
Quando analizziamo i risultati delle elezioni in Gran Bretagna e in Francia non possiamo prescindere dal considerare gli effetti che potremmo definire paradossali dei sistemi elettorali di quei due Paesi.
Il Partito Laburista, che ha fatto man bassa di seggi nella Camera dei Comuni, ha praticamente preso gli stessi voti della precedente consultazione elettorale, quando il leader era Jeremy Bernard Corbyn, esponente della cosiddetta hard left (sinistra estrema si potrebbe tradurre). Ebbene con lui alla guida i laburisti alle elezioni generali del 2019 ottennero il 32% dei voti, con una perdita di 60 seggi, scendendo a 202, il numero più basso dal 1935. Oggi il Partito Laburista si è attestato a poco meno del 34% dei voti, ma la messe di seggi è stata pari al 63% di quelli totali. Indubbia la sconfitta dei conservatori scesi al 24% dei voti, ma ancor più penalizzati come numero di seggi, pari solo al 19% del totale.Non parliamo poi della misera raccolta del Reform UK di Nigel Paul Farage (destra populista, antieuropeista): 14% di voti e 1% di seggi. Meglio è andato ai liberal democratici (12% e 11%), ma non ai verdi (7% e 1%).
Analoga la situazione in Francia. il Rassemblement National di Marine Le Pen è stato il partito più votato: 8.745.240 consensi (32,05%). Supera di oltre 1 milione e 700 mila voti il Nuovo Fronte Popolare (7.005.514, 25,68%). Al terzo posto Ensemble! (i macroniani) con 6.314.418 di voti (23,14%). Infine LesRépublicains (gollisti) che sono stati votati da 1.474.648 di francesi (5,41%). Ma la distribuzione dei seggi ribalta la classifica dei consensi: al primo posto abbiamo il fronte popolare di sinistra con 182 deputati, Ensemble è secondo con 168, Il Rassemblement National solo terzo con 143 (ma alla sua destra so o stati eletti altri deputati), mentre i Républicains ne prendono 68 (con una messe più ricca dei voti raccolti).
Insomma sulla corretta rappresentatività dei prossimi parlamenti britannico e francese ci sarebbe molto da discutere. Questo perché I collegi rigidamente uninominali possono avere assai ineguale popolosità (in Francia, ad esempio, la 2a circoscrizione Hauts-Alpes conta 62.000 abitanti, la 6a circoscrizione Seine-Maritime conta 146.000 abitanti) e in essi basta avere un voto in più dell’avversario per essere eletti. Per l’Inghilterra si tratta di una storica tradizione, in Francia ci sono stati sistemi elettorali diversi, ma l’odierno è sostanzialmente dovuto all’eredità lasciata dal generale Charles de Gaulle, che escogitò un sistema per contrastare l’instabilità politica dei governi precedenti. La Francia ha una democrazia presidenziale con poteri ampi in mano al presidente della repubblica, il quale – come ha fatto con la contestata riforma delle pensioni – in determinate circostanze può varare una legge senza farla approvare dall’ Assemblea Nazionale (la Camera dei deputati). Sistema presidenziale, dunque, cioè il famigerato premierato che le sinistre del nostro Paese tanto aborriscono, soprattutto quando a proporlo è la destra.
La nostra Elly Schlein ha subito esultato per il risultato in Francia, frutto di un “campo largo” a lei tanto caro. Ma i commentatori francesi all’unanimità hanno sottolineato l’eterogeneità del gruppo della sinistra: si tratta di cinque partiti spesso in collisione fra di loro e i cui leader hanno candidamente ammesso di essersi messi insieme solo per sfruttare a loro favore il sistema elettorale francese e impedire alla destra di avere la maggioranza assoluta. In Italia qualcosa del genere provò a fare Prodi con l’ Ulivo. Ma la coalizione – che andava da Mastella a Bertinotti/Cossutta – si sfasciò in breve tempo. La verità è che la Francia esce da queste elezioni più instabile di prima, con le estreme rafforzate e il centro indebolito. Ora spetta al Nuovo Fronte Popolare fare le prime mosse per mettere insieme una maggioranza, sapendo che è quasi impossibile trovare un accordo tra Ensemble e France Insoumise (75 deputati), poiché il leader di quest’ultima, Jean Luc Melenchon, propone un programma massimalista di sinistra, che prevede fra l’altro proprio l’abrogazione immediata della riforma delle pensioni fortemente voluta da Macron (con il limite che ritornerebbe a 60 anni), il blocco dei prezzi dei beni di prima necessità, il salario minimo a 1.600 euro, nazionalizzazioni massicce.
Una ipotesi è l’alleanza fra Ensemble e la destra moderata dei Repubblicani che riproporrebbe una situazione simile a quella vissuta negli ultimi due anni in cui il governo non aveva una maggioranza assoluta ma doveva di volta in volta, per ciascuna riforma, mediare con altri partiti. Il ministro dell’interno di Macron, Darmanin, supporta apertamente questa ipotesi: “Il Paese è a destra, dobbiamo governare a destra, senza allearci con il Nuovo Fronte Popolare”. Infine Macron potrebbe tentare di dividere il fronte di sinistra, imbarcando solo i socialisti di Hollande/Gluksman(65 deputati) insieme con la destra moderata dei Repubblicani (68). Maggioranza risicata e non proprio un’impresa facile.
Commenta l’ANSA: “Il primo partito che esce dalle elezioni è quello dei francesi frustrati: succede, dopo l’iniziale euforia da pericolo scampato per l’intervento del Fronte Repubblicano. Ci sono i delusi perché erano sicuri di vincere, gli scontenti per aver dovuto votare per un partito diverso da quello di appartenenza, e i doppiamente frustrati: quelli che hanno donato il proprio voto per la causa e adesso rischiano di vedersi anche tagliati fuori dalla gestione del potere. E’ quello che potrebbe accadere agli elettori de La France Insoumise”.
Una lezione deve impararla anche la destra lepenista: da soli non si vince, si deve perseguire una politica delle alleanze, che vuol dire esercitare l’arte del compromesso, senza rigidità e senza estremismi. L’Italia in questo senso è un esempio: vince il centro-destra unito nelle sue tre componenti, se va diviso perde.