Carola Vai
Difficile sintetizzare lo scoppio di una rivolta. Anche quando si vive il momento. Come mi è capitato in #Libano. E’ arrivata senza preavviso, come un uragano. Ha investito tutto il Paese: da #Beirut a #Sidone, da #Tiro a #Tripoli, da #Nabatiyeh a #Baalbek. Improvvisamente vie e piazze sono state occupate da migliaia di persone, strade bloccate ovunque. Fuoco, fumo nero proveniente da copertoni di gomma bruciati, spazzatura sparsa e incendiata in ogni luogo, distruzione . Giovani e giovanissimi che sfrecciavano in moto, molti a torso nudo, brandendo la bandiera libanese e usando clacson, fischi e musica per richiamare l’attenzione.
Alla richiesta di spiegazioni qualcuno ha parlato di rivolta del popolo contro il governo, i politici, le tasse, la fame, la mancanza di lavoro, aggiungendo che mai era accaduta una simile unità sotto una sola bandiera: quella libanese e nessuna altra. Stupore logico vista la lunga guerra civile tra cristiani, musulmani, drusi, sciiti, alauiti, armeni.. .
Ero a Beirut dopo una settimana di viaggio tra le bellezze archeologiche del Libano. Chilometri lungo strade deserte, senza turisti, con vari posti di blocco, soldati e carri armati qua e là apparentemente indifferenti al passaggio del nostro pulmino. La tappa nella capitale prevedeva la scoperta della città con il suo museo nazionale ricco di tesori, la grande moschea, la cattedrale, la chiesa dei Cappuccini. E poi il lungomare con i suoi caratteristici locali e tanto altro. Un programma diverso dagli impegnativi tour in mezzo vasti resti archeologici dei fenici e dei romani da Byblos a Tripoli, da Beittedine al grande palazzo di Anjar . Poi la meravigliosa Baalbek fino alla valle dei Cedri e da qui a Tiro, Sidone, la costa e, infine, Beirut. Un lungo viaggio senza problemi, caratterizzato da un eccessivo silenzio in ogni sito e dalla quasi totale mancanza di ospiti nei vari alberghi. Ovunque persone gentili, a tratti indifferenti, altri pronte ad esaudire eventuali necessità anche senza nulla comprendere perché nessuna lingua europea capivano. Clima che pareva comunque emanare strane frizioni tanto dove aleggiava il silenzio, come nei luoghi animati. Ma in nessun posto si coglievano sintomi di una sommossa in arrivo.
Invece, giovedì 17 ottobre 2019 potrebbe diventare una data storica per il Libano. L’inizio di una rivolta destinata a cambiare l’esistenza di un Paese alle prese con povertà, mancanza di lavoro, troppe tasse, corruzione, carenza di energia elettrica e tanti altri problemi.
Svanito il programma di conoscere Beirut, ho scoperto la rivoluzione delle moto, motorini, auto, pulmini con protagonisti soprattutto giovani determinati a cambiare la loro esistenza. In un disordine furioso di suoni di clacson, slogan, cortei sfreccianti, a tratti spezzati da focolai di gomme che scatenavamo metri di soffocante fumo nero, bidoni della spazzatura capovolti. In poche ore la città, come il resto del Paese, è stata paralizzata. Negozi, musei e molte strutture chiuse. Bloccata anche la strada di collegamento tra l’aeroporto internazionale e Beirut. Qualche scontro tra manifestanti e Forze dell’Ordine è avvenuto a Tripoli causando due vittime e diversi feriti. Nulla invece nella capitale nonostante la presenza silenziosa della polizia e dell’esercito.
Chiedendo spiegazioni a qualche libanese c’era chi rispondeva che sfilavano persone di tutte le etnie e che la sola presenza della bandiera libanese, e nessun’altra, stava indicare un’unità di popolo mai vissuta negli ultimi decenni. E mentre la televisione nazionale trasmetteva le prime immagini delle manifestazioni, comparivano reazioni timide e quasi spaventate dei politici.
Ore convulse, in una mescolanza di notizie continuamente diverse. Fino venerdì sera quando l’esercito ha deciso, aiutandosi con carri armati, di presidiare la strada verso l’aeroporto ormai ridotta un campo di battaglia e consentire il transito, attraverso una sola corsia, di chi voleva raggiungere lo scalo. Una possibilità colta anche dal mio gruppo dopo aver trovato, con grande difficoltà, dei taxi disposti poco dopo mezzanotte ad accompagnarci . L’aereo che ci avrebbe riportato in Italia era previsto solo al mattino, ma nell’incognita di un’eventuale nuova paralisi della strada si è scelto di raggiungere l’aeroporto appena possibile. Opportunità utilizzata da viaggiatori di tutte le provenienze, anche di coloro che avevano l’aereo 24 ore più tardi, al punto che all’una e mezza di notte lo scalo, affollato da migliaia di persone, aveva l’aspetto di un accampamento. Uomini, donne, bambini seduti per terra, alcuni addormentati sui bagagli. L’aeroporto, nuovissimo, privo di sedie, non sembra preparato a emergenze improvvise. Negozi e locali, piuttosto pochi, sono rimasti comunque tutti aperti. Il personale ha affrontato la situazione senza lasciar trapelare eventuali preoccupazioni. Un lavoratore dell’aeroporto al quale ho chiesto un parere su quanto stava capitando dopo aver detto: “non posso parlare”, ha aggiunto: “non si può sempre solo sopportare. Qualche volta bisogna reagire. Senza reazione si finisce in una situazione peggiore”. Si direbbe una sintesi dei motivi della rivolta libanese. E forse anche di quelle in corso in altri Paesi del mondo.
Nel frattempo il premier libanese Saad Hariri per tentare di placare le proteste ha annunciato un pacchetto di riforme economiche che comprende il dimezzamento dello stipendio di ministri, parlamentari, diplomatici, ex rappresentanti delle istituzioni. Inutilmente . I manifestanti hanno reagito dicendo di rimanere in piazza “fino quando tutto il sistema politico non si dimette”. E lo slogan ripetuto è: “ Il popolo vuole la caduta del sistema”.
Intanto le principali strade del Paese nella quinta giornata di proteste sono state nuovamente chiuse con blocchi ovunque secondo quanto riportato dai giornali locali.