Ugo Marchisio
Torno a lavorare in corsia! Ho resistito alle sollecitazioni ad entrare nella Commissione Medica dell’Unità di Crisi/DIRMEI della mia Regione, il Piemonte, ma non ho potuto sottrarmi alle pressioni dei miei ex colleghi dell’ Ospedale Maria Vittoria, lasciati 4 anni fa, sommersi dalla nuova ondata di ricoveri da coronavirus. Rispetto ai mesi di marzo-aprile, schematizzando molto la situazione epidemiologica, registriamo molti più casi positivi, ma anche una minore gravità dei sintomi. Infatti quasi il 95% degli infettati sviluppa sintomi lievi o non ne sviluppa affatto; non più del 5% necessita di ricovero in ospedale e la letalità complessiva è stimata al di sotto dell’1%.
Il contagio è dilagato moltissimo soprattutto per gli spostamenti di popolazione nei mesi estivi e il rilassamento generale circa le misure di protezione dopo la fine del lockdown, per cui i casi impegnativi ed i decessi, anche se ridotti in percentuale, sono risaliti, come numero assoluto, quasi ai livelli di fine marzo: 400-450 morti per coronavirus al giorno, in tutta Italia, a fronte dei 700 circa del periodo primaverile con un picco di 919, raggiunto il 27 marzo 2020.
Ma la situazione dei Pronto Soccorso e delle corsie di ospedale è forse peggiore di allora perché l’afflusso di malati “non-COVID-19” o “sospetto-COVID-19” (e adesso la paura veramente “fa 90!”) si sta mantenendo molto più alta che in primavera e le attività ospedaliere non di emergenza sono state ridotte, non bloccate. Ma soprattutto non sono state messe in atto le misure di potenziamento e riorganizzazione dei servizi che l’esperienza della prima ondata aveva dimostrato essere inequivocabilmente necessarie. L’errore mentale che quasi tutti hanno fatto, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente, è stato quello di tirare un gran sospiro di sollievo quando il numero dei morti, nei mesi estivi, cadde a meno di 10 al giorno. Il lockdown era ormai solo più un triste ricordo e tutti “ricominciarono a vivere” alla grande. I casi di Berlusconi, di Briatore e del “Billionaire” sembravano la coda folcloristica, ad opera di pochi “esagerati”, di una tragedia ormai praticamente finita.
Non si era capito che il confinamento non è una misura che stronca un’epidemia, ma costituisce solo un transitorio argine, un congelamento della diffusione del contagio, che permette:
- Di “appiattire” la curva di incremento dei casi che, da logaritmica, si fa orizzontale e costante permettendo al sistema sanitario di reggere l’urto dei malati, “diluito” nel tempo, senza esserne travolto.
- Di “guadagnare tempo” per attuare tutte quelle misure strutturali e organizzative indispensabili per fronteggiare il ripartire dell’epidemia (cosa scontata visto che fino allora il virus aveva colpito solo una minoranza della popolazione) appena si fosse ripresa una vita pressappoco normale.
È proprio il fatto di non aver capito questo secondo punto che ha fatto perdere tempo prezioso nel nostro Paese, ma anche in quasi tutti gli altri… Durante il lockdown e nell’estate, oltre a potenziare le unità semintensive e intensive in ospedale, avremmo dovuto sviluppare prioritariamente, sul territorio, un sistema capillare di individuazione immediata dei nuovi casi, di isolamento e tracciamento dei contatti. Così avremmo potuto “spegnere” tempestivamente tutti i nuovi “piccoli fuochi” di contagio – senza il blocco dell’attività produttiva – prima che si sviluppassero e confluissero in un “incendio” generale. La controprova dell’importanza cruciale di questo approccio ci viene dai successi dei Paesi che erano da anni preparati a metterlo in pratica e che lo hanno fatto con decisione e compattezza: a parte la Cina totalitaria, i Paesi “democratici” dell’estremo oriente confuciano/taoista (Corea, Giappone, Taiwan, Singapore), ma anche la Nuova Zelanda e, abbastanza, la Germania.
I “negativisti” o quasi, per ideologia (gli USA di Trump, il Brasile di Bolsonaro o la Russia i Putin), per prassi (Belgio e Svizzera per esempio) o anche solo per necessità (Africa e Paesi a basso reddito di America Latina e Asia) sono quelli che se la vedono più brutta, schiacciati dall’alternativa tra morire di polmonite per il coronavirus o di fame per il lockdown… E la seconda ipotesi è certamente peggiore della prima per chi non ha gli strumenti economici e culturali che gli permettono di ricorrere a cure adeguate in tempo utile. Una cosa è certa: la pandemia, tra le altre tragedie che ha provocato, ha reso ancora più profondo il solco delle disuguaglianze un po’ ovunque sul nostro pianeta ed il danno resterà profondo a lungo.
Ed a proposito di divisioni e mancata solidarietà umana, un fatto che comincia a preoccupare veramente è la polarizzazione, sempre più spiccata, di due modi di sentire, prima ancora che di pensare, tra la gente comune:
- I “giovani negativisti” che, confidando nel basso rischio di sviluppare una malattia grave, affrontano il contagio sprezzanti, si tuffano nella movida senza mascherina, spingono alla ribellione, appoggiati dalle partite IVA in crisi, contro ogni forma di blocco delle attività produttive e se la prendono con i vecchi, fardello assistenziale e improduttivo, che per loro possono anche andare all’altro mondo in massa, con i loro redditi fissi da pensionati, il loro gravare sul sistema sanitario ecc. ecc.
- I “vecchi ibernati” che si rintanano in casa terrorizzati, vedono nei giovani degli “untori” irresponsabili, una generazione di ingrati, e rinunciano così a svolgere quel ruolo attivo e preziosissimo di sostegno e di “welfare integrativo” che, specialmente in Italia, si rivela indispensabile all’equilibrio sociale ed al benessere di tutti. Da “nonni bankomat”, “nonni baby sitter” e “nonni fattorino” diventano “nonni zombi” e anticipano funzionalmente quel drammatico passaggio da stampella a zavorra che spesso, purtroppo, devono subire quando, da anziani attivi e sani che aiutano le nuove generazioni, diventano anziani fragili e disabili da assistere.
Quindi, per tornare alla domanda iniziale, “si fa troppo o troppo poco?”, dobbiamo concludere che per alcuni si fa troppo e per altri troppo poco. Certamente questo nuovo lockdown più o meno parziale servirà a poco se non si attuano quelle trasformazioni e quei potenziamenti del servizio sanitario, ospedaliero e territoriale, cui ho accennato prima. Certamente un vaccino che funziona servirebbe, ma vista l’estrema capacità di mutazione del virus e la sua tendenza, comunque, a diventare sempre più “addomesticato”, personalmente, ci spero poco e non vorrei si riducesse ad una mera mossa demagogica e speculativa.
Certamente sarebbe bello poter fare delle previsioni e poter tracciare una road map, non solo sanitaria, ma anche economica e politica, con cui orientarci compatti, convinti e motivati. Ma non è cangiante solo il comportamento del virus: sono ancora più cangianti le scelte operative dei vari governi europei, compreso il nostro, e prevedere il futuro diventa veramente tirare a indovinare.
Non sono però pessimista. Come l’umanità si è sempre ripresa dopo ogni epidemia, credo che possiamo anche noi riprenderci e magari scoprirci, come il coronavirus, “mutati”: più solidali e motivati a lavorare duro, tutti insieme, cominciando da chi ci sta accanto e annaspa più di noi. Perché solo se sapremo stare tutti insieme uniti su questa terra potremo salvarci da questa e ancor più dalle prossime prove.