Dario Gedolaro
Si definì “Papa arrivato dalla fine del mondo”, ed infatti è stato il primo Santo Padre proveniente dalle Americhe. Papa Francesco si è portato dietro alcuni caratteri distintivi : l’ appartenenza a una famiglia di emigranti italiani, la cultura sudamericana e in particolare argentina, la formazione da gesuita.

Chi non lo amava ha fatto circolare una battuta: “Cocciuto come un piemontese, ambiguo come un gesuita, superficiale come un argentino “. Sicuramente il suo pontificato è stato segnato da situazioni e scelte non convenzionali: la convivenza con un Papa dimissionario, Benedetto XVI, la decisione di non domiciliare in Vaticano ma nella Casa Santa Marta, le numerose nomine di cardinali di diocesi del terzo e quarto mondo, atteggiamenti inconsueti e poco istituzionali.
A proposito di cardinali, nell’ultimo concistoro (8 dicembre scorso) ne nominò 21: solo 4 italiani, uno ormai fuori dal Conclave avendo 99 anni; un secondo della congregazione degli scalabriniani, suo ex collaboratore all’ Arcidiocesi di Buenos Aires, impegnato nella Curia romana a seguire i migranti; un altro suo stretto collaboratore, come vescovo ausiliare della Diocesi di Roma; il quarto, l’arcivescovo di Torino Roberto Repole, autore del libro La Teologia di Papa Francesco, una serie di analisi di teologi in 11 volumi. Evidentemente al Papa Francesco è piaciuta e così Torino ha riavuto la porpora cardinalizia dopo 23 anni, ma non l’hanno riavuta diocesi importanti come Milano, Venezia, Napoli, Palermo e nemmeno Parigi e Berlino.
Insomma, Papa Francesco ha voluto rompere con la prassi, che legava strettamente la porpora all’importanza storica della cattedra, e plasmare una Chiesa a sua immagine: in una battuta fatta da lui, una Chiesa “ospedale da campo”, attenta ai temi della giustizia sociale e dell’ecologia, dialogante con le altre religioni, in particolare con l’Islam, meno dottrinaria. Insomma, non proprio sulla scia del precedente pontificato di Papa Benedetto XVI, incentrato sullo sforzo di conciliare la fede con la ragione, preoccupato di riaprire spazi al cattolicesimo in un mondo estremamente secolarizzato. Ma uno ha guardato molto all’Occidente, l’altro al resto del pianeta, e d’altronde sono partiti da esperienze e formazioni personali molto diverse. Se un filo comune si può trovare fra i due è quello della misericordia, cioè di mettere l’accento sul perdono più che sulla condanna.

E così, sin dal primo concistoro del 2014, Papa Francesco ha scelto vescovi dal Ruanda e dalla Mongolia, nominato il primo indigeno latinoamericano, il primo esponente della Chiesa cattolica scandinava dai tempi di Martin Lutero, cardinali provenienti da angoli remoti del pianeta, come Brunei, Papua Nuova Guinea, Capo Verde, Sud Sudan.
Certo Papa Francesco amava le sue radici piemontesi, in particolare astigiane, e forse non a caso uno degli ultimi suoi atti è stato proclamare santi due giovani di famiglie torinesi, Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, di cui però non farà in tempo a celebrare la solenne canonizzazione.
Il teologo Vito Mancuso, intervistato subito dopo la morte di Papa Francesco, ha detto che per lui si può creare un neologismo: teopatia. “Un misto di simpatia, empatia, pathos, passione. Con tutti i limiti della passione, che l’ha reso ad alcuni simpaticissimo e ad altri insopportabile. Segno della passione, che suscita grandi simpatie e inevitabilmente nutre antipatie. Francesco non è stato un teologo , né un diplomatico come Pio XII, né un intellettuale come Paolo VI. Parlava in maniera inaspettata, destabilizzava, era teopatico”.
Per l’ex direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Vian, è stato un gran comunicatore, capace di parlare in modo semplice, senza veli, amante delle interviste che però comportano il rischio dell’improvvisazione col pericolo di dire cose anche contraddittorie. E infatti ha sconcertato quella parte di radical chic, che gongolavano sulle sue presunte aperture alle trasgressioni del mondo Lgbtq, quando disse ai vescovi della Cei di non ammettere seminaristi dichiaratamente gay, perché “nei seminari c’è già troppa frociaggine”. Altra costernazione quando ha condannato duramente il ricorso all’aborto, difeso la famiglia “tradizionale” e, proprio alla vigilia della morte, quando ha ricevuto il vicepresidente degli Stati Uniti, James David Vance, che in Italia definiremmo un cattolico integralista, sostenitore delle politiche anti gender e anti immigrazione clandestina del presidente Trump. Già qualche nostro organo di stampa aveva dato per scontato che non sarebbe stato ricevuto dal Papa.
Perché Papa Francesco non è stato un “rivoluzionario”, non ha propugnato nuove teorie teologiche e morali, non ha intaccato la dottrina della Chiesa, non ha aperto al sacerdozio femminile o ai preti sposati. E’ stato più modestamente un riformatore. che ha sovvertito alcune consuetudini e modificato delle tradizioni, riorganizzato gli uffici del Vaticano, valorizzato il ruolo della donna (per la prima volta una donna è a Capo governatorato Città Vaticano). Insomma se di “ambiguità gesuitica” non è giusto parlare, certo non gli è mancata la capacità di trovare audience con il linguaggio del buon parroco, che conosce limiti e debolezze del suo gregge e cerca di correggerlo senza irritarlo troppo.
E ha pensato anche alla sua successione: su 138 cardinali che voteranno in Conclave, 110 (l’80%) li ha nominati lui e con quali criteri lo abbiamo visto. Questo ovviamente potrebbe spingere l’elezione verso un successore in continuità con il suo pontificato. Le chanches della cosiddetta ala conservatrice sono appese a un lumicino. Ma lo Spirito Santo è a volte imprevedibile.