DARIO GEDOLARO
Che il reddito di cittadinanza e quota 100 – i due più importanti provvedimenti socio-economici del governo Cinque Stelle/Lega – fossero un azzardo per uno Stato super indebitato come l’Italia lo avevano detto e intuito in molti, ma ora la retromarcia è clamorosa perché fatta da uno dei sostenitori più “illustri” di entrambi: il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, uno dei consiglieri di Luigi Di Maio.
Partiamo dal reddito di cittadinanza. Era stata la bandiera dei 5 Stelle per contrastare la povertà e garantire il diritto al lavoro. Tridico nel presentare la ventesima relazione annuale dell’Inps ha candidamente ammesso: “Due terzi dei beneficiari non è occupabile”. Eppure proprio Tridico nel 2018 dichiarava: “Il reddito di cittadinanza mira a favorire la riduzione della inattività”. E nel 2019 diceva che in tre anni (con una crescita normale) si sarebbero potute “attivare” un milione di persone.
Lo stesso ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha recentemente riconosciuto: “Raccontare che si sarebbero aiutate le persone a trovare lavoro tramite il reddito di cittadinanza è stato un errore”. I 3 mila navigator sono stati un fiasco, e non solo e non tanto per colpa loro, erano impreparati per un’impresa già di per sé impossibile. Insomma, li abbiamo pagati quasi per nulla, con un costo per lo Stato di 90 milioni di euro l’anno. L’ ultimo dato ufficiale disponibile dice che sono state 152.673 le persone che hanno instaurato un rapporto di lavoro, cioè solo il 15,19% degli occupabili (perché c’ è anche una bella fetta di “inoccupabili” per vari motivi che usufruisce del reddito di cittadinanza). Nel tempo, poi, il numero dei beneficiari del reddito di cittadinanza è cresciuto e neanche di poco: a maggio si contavano 1,1 milione di nuclei per 2,8 milioni di persone.
Passiamo a quota 100, bandiera della Lega. Sempre Tridico dichiara: “Un’analisi condotta su dati di impresa non mostra evidenza chiara di uno stimolo a maggiori assunzioni derivante dall’anticipo pensionistico”. Insomma non si può negare il sostanziale fallimento della misura: “Era un esperimento che durava tre anni e che finirà il 31 dicembre del 2021. Le aspettative erano state immaginate in un contesto precedente la pandemia. Per il suo superamento serve un modello con più flessibilità”. E aggiunge: “Il pensionamento non serve a creare lavoro”. Parole dette da una persona che credeva nella “staffetta generazionale”.
Ma Tridico nella sua relazione ha affrontato anche un altro grave problema, quello della denatalità, che, in ossequio al politicamente corretto, viene tenuto un po’ in sordina rispetto a temi molto più alla moda, come la presunta “omobitransfobia” del popolo italiano (fra l’altro parliamo di orientamenti sessuali che certo non favoriscono l’incremento delle nascite, anche solo perché oggi come oggi l’Italia vieta la pratica dell’utero in affitto).
E torniamo alle parole di Tridico sull’ invecchiamento della popolazione: “Uno degli aspetti più problematici che oggi vive il nostro paese è la scarsa natalità. Questo ovviamente ha un impatto sia sul mercato del lavoro che sulla sostenibilità della crescita economica…. La società italiana sta perdendo il contributo dei giovani, identificabili come la fascia entro i 29 anni: erano il 51,6% della popolazione nel 1951, sono oggi circa il 28%. Al rischio di diventare una risorsa sprecata si coniuga il rischio di costo sociale, che già oggi si concretizza nella disoccupazione, e dei neet, la permanenza in famiglia, la scarsa o nulla partecipazione sociale. Il nostro Paese vede un aumento sproporzionato della popolazione anziana”.
Se non si risolvono i tre i problemi non si potrà andare molto lontano L’Italia non pensi di poter essere il Paese del bengodi con pensioni date generosamente, sussidi elargiti anche a chi non ha nessuna intenzione di cercare un lavoro, e nuove generazioni numericamente esigue che devono, fra l’altro, sostenere la spesa di chi va in pensione. Purtroppo il problema della denatalità e anche un problema culturale (di una cultura edonistica e individualistica) e non si risolve solo con sussidi. Oggi come oggi è indotto dalla tendenza dei giovani a comportarsi da adolescenti fin oltre i 30 anni e se i ragazzi (o ex ragazzi) fuggono da impegni familiari e genitoriali, le ragazze tendono a non voler parlare di maternità prima dei 30-35 anni, quando le probabilità di avere figli diminuiscono gradualmente. Un’indagine recente della Fondazione Donat Cattin fotografa la situazione: il 51% dei ragazzi interpellati (ventenni) dice di non immaginarsi genitore, il 30% stima che a 40 anni avrà un rapporto di coppia ma senza figli, mentre il restante 20% pensa che sarà single