Dario Gedolaro
All’ inizio furono i due palazzi di corso Marconi, oggi tocca alla storica palazzina del Lingotto, domani a chi? I legami fra quella che una volta si chiamava Fiat (poi Fca e ora Stellantis) e Torino diventano sempre più labili. Con l’annuncio della messa in vendita della palazzina di via Nizza (dove c’ è ancora la mitica sala del consiglio di amministrazione Fiat, in cui sedeva negli Anni Venti il Senatore Agnelli) prosegue un trend iniziato tempo fa, quando si dismisero i grandi stabilimenti: ad esempio Rivalta e Chivasso, le Ferriere (divenute ThyssenKrupp, in cui all’ inizio ci lavoravano 13 mila persone).
Andarono in fumo oltre 100 mila posti di lavoro. Acqua passata si dirà e può essere anche vero, ma è stato un andamento sempre in discesa, mai in risalita. Dice su Il Foglio Filippo De Pieri, professore di storia dell’architettura al Politecnico di Torino: “La decadenza della città è piuttosto evidente, solo lo smart working ha reso possibile trovare posto sul Frecciarossa per e da Milano, il disimpegno della Fiat è evidente, in città resta praticamente solo la Lavazza che di recente ha costruito la sua nuova sede operativa su progetto di Cino Zucchi, architetto milanese”. Giudizio che fa male, reso ancor più severo dal titolo dell’ articolo: “Il lento addio della Fiat a Torino, città ormai condannata alla decadenza”.
Si sono persi 5 anni con un’amministrazione comunale superficiale, incompetente, demagogica, cinque anni in cui i problemi principali sembravano i droni, le piste ciclabili, i monopattini, la criminalizzazione del traffico automobilistico, i gay pride e le famiglie arcobaleno. Purtroppo tutti i nodi vengono al pettine e, mentre Milano, come fa intendere chiaramente il prof. De Pieri, galoppava Torino faceva come i gamberi. Il paragone non è fatto a caso: Milano è stata in questi anni la grande divoratrice di attività torinesi, oltretutto mascherando questa sua voracità con ridicoli appelli alla collaborazione e al non assumere atteggiamenti che ai tempi dell’unità d’Italia erano definiti “municipalistici”. E così, tanto per fare un altro esempio, la Rai, che a Torino aveva il suo secondo polo nazionale (più di 2 mila dipendenti) è ridotta a poca cosa, superata da Milano e Napoli. Più volte c’ è stato il tentativo di togliere a Torino il ruolo di Centro di produzione, come hanno Roma, Milano e Napoli.
I sindaci precedenti alla nostra ineffabile Chiara Appendino hanno cercato di tamponare il deperimento industriale in qualche modo: da Castellani a Chiamparino, a Fassino. Scelte sbagliate (cultura e turismo al posto dell’industria), ma almeno scelte. La crisi economica ha picchiato duro in questi anni e così la popolazione si è ribellata al governo di una sinistra che non era riuscita a dare risposte soddisfacenti e che riproponeva un “pensionato” della politica. Soprattutto le periferie ex rosse hanno votato in massa il nuovo che avanzava, rappresentato da una ragazzina trentenne dai begli occhi azzurri. Ma ha votato con la pancia e non con la testa, non ha badato ai programmi e alle persone che stavano alle spalle della inesperta candidata, non ha preso sul serio i proclami del Movimento Cinque Stelle. E così siamo caduti dalla padella alla brace. Eppure qualche voce allarmata sul possibile successo di questa armata Brancaleone si era levata anche dal centro destra. Ricordo un’intervista, prima del ballottaggio, del capogruppo in Comune di Forza Italia, Osvaldo Napoli: a chi gli domandava quale sindaco sarebbe stato meglio per Torino (Fassino o Appendino) disse che preferiva “farsi operare da un professionista piuttosto che da un principiante”.
E Torino era una paziente grave, bisognosa di una difficile operazione risanatrice. Avrebbe avuto bisogno di un sindaco di grande personalità ed esperienza, di relazioni internazionali, di peso a livello nazionale. Purtroppo, Appendino a parte, non è che il resto della classe politica brillasse. La strada era quella di rivolgersi alla cosiddetta società civile, che qualche cosa poteva offrire; penso, ad esempio, a un Francesco Profumo con un curriculum di incarichi pubblici e privati di tutto rispetto: presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del Governo Monti, presidente di Iren, presidente della Compagnia di San Paolo. Forse era l’uomo giusto, ma il centro sinistra, che aveva una mezza idea di candidarlo, gli pose delle condizioni (leggi condizionamenti) tali che lui rifiutò. E così siamo finiti in braccio a un sindaco che aveva come uniche esperienze una legislatura di consigliere comunale e un lavoretto a tempo determinato presso la Juventus. Come pensare che potesse girare l’Italia e il mondo per rilanciare Torino, che potesse competere con sindaci di altre città, che avesse almeno l’ apertura mentale per circondarsi di consiglieri di grande capacità e visione? Ed è già stata fortunata che su una importante poltrona torinese, quella di presidente della Fondazione Crt, c’era una persona attivissima come il prof. Giovanni Quaglia, ex presidente della Provincia di Cuneo e con incarichi di vertice in società autostradali: da lui sono venute alcune delle pochissime iniziative interessanti di questo quinquennio, come le OGR Tech, il nuovo hub di innovazione per la ricerca scientifica, tecnologica e industriale. Altrimenti il disastro sarebbe stato totale.
Ma torniamo al binomio Fiat-Torino. Dopo il trasferimento nel 2019 dell’ufficio del presidente di FCA, John Elkann, presso la Fondazione Agnelli in via Giacosa e quello di agosto 2020 con i servizi finanziari, ufficio stampa e relazioni industriali che hanno traslocato da via Nizza a Mirafiori, la vendita della palazzina di via Nizza recide un altro storico legame fisico tra Fiat e la sua città.
Il nuovo sindaco dovrebbe cercare di riannodare qualche filo con la famiglia Agnelli, considerare gli stabilimenti Mirafiori e Iveco (per un pelo non è finita in mano ai cinesi) come la “linea del Piave”, cercare di rilanciare l’attrattività di Torino come sede di attività imprenditoriali, in una parola fare tutto quello che il suo predecessore non è stato in grado di fare.